«L’invito del volantino è chiaro» per Stefano Storti: «Il cuore di tutto è un soggetto, generato all’interno di un cammino saldo e robusto, che lo rende in grado di fare impresa economica e di sostenere chi fa più fatica». Al fondo di una traiettoria del genere, continua, ci sono tre aspetti. Intanto che il «lavoro è servire un altro, è che c’è nobiltà in questo». E poi c’è l’esperienza del limite, che uno da solo non ce la fa. Proprio da questo emerge il terzo punto, il mettersi insieme per costruire qualcosa. Solo da qui, secondo Storti, si possono guardare le problematiche connesse alla situazione di oggi. Dal recupero della “italianità” imprenditoriale alla valorizzazione di ciò che già c’è nel mondo dell’impresa. Allora, per esempio, si può andare a guardare come la flessibilità nel mondo del lavoro, in entrata e in uscita, sia una necessità imprescindibile. Oppure come altrettanto viscerale sia il tema della formazione e dell’apprendistato. In tutto questo c’è una chiave di volta: «La responsabilità personale. Che ciascuno faccia bene il suo».
Vale per l’impresa. Ma vale per tutto il resto. welfare compreso. Marco Sala è alla guida di una realtà che assiste oltre 15mila persone all’anno. Ex infermiere, con un passato negli ospedali ugandesi di Kampala, sul tema prova a ribaltare la prospettiva: «Proviamo a guardare il welfare come una cosa da conquistare e non un diritto». Come desiderio, dice. Il diritto è alla cura: «La figlia di un amico, quando stavo in Africa, ha preso la meningite. Ora, quell’amico si è caricato la bambina in auto per portarla nell’ospedale di Gulu, attraverso una regione insanguinata dalla guerra dei ribelli. Non si è fermato ad affermare un diritto. Ha preso la macchina ed è partito». Il welfare è, innanzitutto, la mossa di uno. «”La nostra famiglia” è nata così. Risposta ai bisogni che mano a mano si presentavano». Una modalità che oggi, tra le pieghe della burocrazia di una pur buona sanità, quella lombarda per esempio, risulta un po’ incastrata. Con il rischio che quel tentativo di risposta venga guardato solo come erogazione di un servizio».
«È una sorta di crisi adolescenziale dell’epoca della libertà», attacca il professor Magatti. Legge così la crisi, «strana, anche per il fatto che i Paesi occidentali sembrano incapaci di reagire, tutti presi a tentare di riaccendere una macchina grippata». Il suo è un sintetico affondo storico su quello che ci ha portato fin qui. Dagli anni Ottanta, la scoperta delle libertà, l’economia dei consumi che sostituiva quella del lavoro. E il ruolo marginale dell’Italia in questo processo, che si è inventata consumista, senza i mezzi, indebitandosi fino al collo. «La Seconda Repubblica fu un tentativo di riparare a questa marginalità», spiega il professore. Emerse un dato, allora: «Negli anni Novanta abbiamo assistito alla perdita della nostra identità nazionale, anche in nome di un’Italia a-cattolica, non anti-cattolica». Oggi vediamo le conseguenze, tra istituzioni lontane dalla società e cittadini lontani dalla politica. «E a pagarla è la generazione dei giovani, per i quali tutti si devono sentire responsabili».
Il passaggio obbligato, per Magatti, è verso le economie “del valore”, le uniche in grado di sopravvivere alla nuova globalizzazione: «Come? Intanto producendo capitale umano. Investendo sulla qualità delle persone. E iniziando a concepire questo non come un costo, ma come un investimento nel tempo, capace di portare ricchezza e “intrapresa” nel produrre quel valore». La crisi può essere dunque un’occasione “benedetta”. «Di revisione istituzionale, come era accaduto nel Dopoguerra, per esempio». Anche per l’Europa, per la quale la spinta può venire solo dai singoli Paesi. «In questo, l’idea di federalismo gioca un ruolo chiave, anche nel nostro Paese». C’è da lavorare su questo «in termini di “fare alleanza”. È finita la stagione della libertà individualistica. Dove tutto, famiglia, educazione, rapporti di lavoro, sembrava destinato a slegarsi».
A chiudere l’incontro è Scholz, partendo proprio dalla crisi della libertà: «Facciamo fatica a viverla come responsabilità, cioè, guardando al bene comune». Come in sequenza fotografica, il presidente CdO racconta di una situazione drammatica, in cui non bastano slogan elettorali per trovare vie d’uscita. La crisi colpisce tanti settori, ma incidere è anche il calo dei consumi. I dati sono davanti agli occhi di tutti. «Con un debito come il nostro di 2mila miliardi non c’è altra strada: dobbiamo crescere. Non trovo giusto che uno stato sovrano sia esposto ai mercati finanziari. Ma è così, e dobbiamo farci i conti. Perché gli interessi sul debito vanno pagati, e determinano le manovre economiche». Realismo, quindi, innanzitutto. E come si fa a crescere? Scholz, uno dietro l’altro, elenca una serie di punti di attacco. Dalla riforma della Pubblica Amministrazione, allo stato una giungla di burocrazia inefficace, al federalismo, perché «non si può prescindere dal dato che il 60% per cento della spesa pubblica sia decentrato. Questo riduce la spesa pubblica, non tagliare le “auto blu”». E poi il welfare, con la sua necessità di nuove normative per un settore che rappresenta più del 4% del Pil con 65mila posti di lavoro. Occupazione e formazione, ancora, sotto la lente della dignità del lavoro e della valorizzazione dell’apprendistato. E poi la voce calda delle tasse: «Da abbattere, senza l’illusione di farlo subito. Sarebbe una follia. Ma se qualcosa si può fare, si parta dalla famiglia». E così via. Innovazione, cultura, identità cristiane. Tutti punti raccolti nel volantino CdO. «Non è ideologia», chiosa Scholz: «Quello di cui parliamo è ciò che tutti possono vedere ogni giorno. Rendersene conto, andarci a fondo, arrivare a un giudizio maturo e personale, serve a una democrazia matura, la rafforza. È una libertà vissuta per ciò che è».
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